sabato 22 ottobre 2011

Hotel Palestine



Federica era in taxi, le mani strette nelle mani, bianche esangui e il viso perfetto di porcellana, o forse si era fatto di avorio in quel pomeriggio parigino. Invecchiato, all’improvviso.
Le labbra disegnate a cuore, come ciliegie mature, da raccogliere. La linea dell’eyeliner le sottolineava lo sguardo, a mettere in evidenza due occhi chiari, immobili come un lago.
Parigi sfilava dal finestrino mentre seguivano il lungo Senna, guardò la Tuilerie, e la Tour Eiffel svettava in lontananza, l’intreccio morbido di acciaio a disegnarne il profilo.
Le mani strette in grembo, gli occhi obliqui, abituati al pianto, che era un singhiozzo muto in fondo alla gola, come in un film si vedeva proiettata in una realtà che non le sembrava la sua.
Un errore, sicuramente avevano fatto un errore.
Massimo non poteva essere morto.
Il taxi rallentò, svoltò a destra nel vicolo e si fermò.
La giovane donna ne scese con tutto il peso della croce sulle spalle.
Si sentiva come un attimo prima di mezzanotte, quando sai che il conto alla rovescia viene scandito da migliaia di persone, come a Time Square e poi piovono coriandoli,  e parte la musica, e allora tutta quell’adrenalina, ti si scioglie in petto e non sai perché vuoi solo piangere.
Meno dieci
Alzò lo sguardo verso la finestra dove tante volte lui l’aveva salutata.
Meno nove
Quanto ci mette il cervello a comandare alle gambe di muoversi?
Meno otto
Le mani a cercare le chiavi.
Meno sette
Le chiavi cadute a terra, le mani che tremano.
Meno sei
La porta che si apre e lei che entra nel cerchio di ombra dell’androne.
Meno cinque
Lo sguardo sale le scale prima dei piedi.
Meno quattro
Le scale due alla volta.
Meno tre
La porta dell’appartamento socchiusa.
Meno due
I Carabinieri che si voltano vedendola entrare.
Meno uno
Lo sguardo di Iris, la compagna di Massimo: la Maddalena dopo che hanno crocefisso Gesù. Allora Federica capì e la bella maschera del suo volto di attrice si frantumò come un calco di gesso.
Zero
Massimo disteso sul letto. La testa reclinata sul cuscino in una posizione innaturale.
Federica rimase immobile. La morte aleggiava nell’ombra, quasi a scusarsi di ciò che aveva fatto, come il vizio di un bambino distratto che fa cadere il vaso delle caramelle.
La finestra era socchiusa, il vento sollevava leggermente la tenda e i tetti di Parigi occhieggiavano, tra le soffitte e i camini. Poi c’era il cielo.
Federica tornò a posare lo sguardo nella stanza, sul tavolino: la cornice d’argento con Massimo e suo padre sullo sfondo del lago Vittoria. Un foglietto piegato a metà. La siringa con l’ago scoperto. Le fece male il solo vederla, come la Bella Addormentata punta dal fuso.
“Massimo” le sembrò di urlare, ma la voce era appena soffocata. Le mancava l’aria.
“Massimo” questa volta gridò e le fecero male i polmoni quando l’aria li attraversò.
Poco dopo era tra le braccia di Iris: che non aveva più lacrime, solo quello sguardo di Madonna addolorata. Chi poteva consolarla?

Iris aveva gli occhi bassi, le facevano male per il pianto. Le labbra erano una linea sottile ed esangue, le parole pesavano come macigni, lei che con le parole aveva fatto girare il mondo ora era lì in quella stanza in penombra.
“Non ho parole” Massimo diceva così, ogni volta che qualcosa lo sorprendeva, lo ammagliava, lo stupiva.
Ecco, anche lei ora non aveva parole, non ce ne erano più, le avevano usate tutte, se le erano dette tutte, parlavano senza dirsi nulla, il loro amore era cresciuto così tanto da essere passato in un’altra dimensione, al di là dello specchio, come avrebbe suggerito Alice. Si parlavano con gli occhi, si intuivano a un cenno, a uno sguardo. I loro lunghi silenzi riempivano le stanze come note.
La loro storia stava nell’orlo scucito della notte, nel cono rovesciato della luce amica di un lampione, sul cortile. Lei era il negativo di una fotografia, il suo spogliarsi per lui con lo sfondo di quella luce e il suo profilo di cigno nero che lo affascinava.
Cercava convulsa nella mente un ricordo, disperatamente come rovesciare un cassetto per trovare una lettera, un documento, una sciarpa, qualcosa di smarrito, che ti serve subito.
E si graffiava l’anima facendosi largo tra i pensieri che non volevano prendere forma.
La mano premurosa del medico si appoggiò al suo braccio: “Ascolta, è meglio che prendi qualcosa, un calmante”
Lei scosse la testa, avvicinandosi alla finestra per respirare a pieni polmoni.
No, nessun calmante, con Massimo aveva condiviso tutto, il loro lavoro, l’amicizia, l’amore, i giorni di prigionia nello Yemen, poteva ora stordirsi e non vivere con lui anche la morte?
Doveva restare lucida e fissare nella mente ogni attimo.
Cosa le aveva detto prima di chiudere gli occhi per sempre?
Paralava di Federica, della casa in Italia e poi facendosi serio e raccogliendo tutto il coraggio che gli restava l’aveva fatta avvicinare, dandole un bacio sull’angolo delle labbra, dove si disegnava una fossetta quando era seria. “Qui ci sarà sempre il mio buongiorno e la mia buonanotte”
Così aveva detto. Lacerandole il cuore ora i ricordi cominciavano a scendere in caduta disordinata e libera.

Iris si svegliò sudata, le mancava l’aria, avvertì distintamente il ventilatore a pale del soffitto, la zanzariera ricadeva su suo letto. Ci mise un po’ a mettere a fuoco dov’era e che quello che aveva appena vissuto era stato un sogno.
Appoggiò le gambe a terra pensando che non l’avrebbero sorretta, poi si avvicinò alla finestra, Baghdad dormiva, c’era il coprifuoco.
Una lucina verde sul display del cellulare indicava che c’era un messaggio: era di Massimo.
“Buona notte, tienimi con te, che questa notte fuori nel deserto fa paura”
Già quella notte aveva fatto paura anche a lei: presagio?

Nessun commento: