lunedì 17 ottobre 2011

Non esistono ladri d’orizzonte, diamoci un taglio

Il sole era un’arancia rossa affacciata al mio bicchiere vuoto, nella sala d’attesa di una vita.

Sale d’attesa

Attese

Di biglietti obliterati, morsi con i denti a ferire la neve con il sangue.

Walzer di cellule impazzite nausea di riso soffiato sulle labbra.

Punta Perotti è un cumulo di macerie, acciaio contorto e cemento sgretolato, affoga il sole crepitando sul mare e sposa una luna dorata che lascia scia d’argento sull’acqua.

Sento un brivido, allungami una coperta di mare, lascia che mi copra nel ritorno umido di marea, mentre mastico sabbia.

Carezze di sguardi sulla superficie ruvida degli ulivi, che feriscono la pelle, lasciando un segno, il resto mancia, nelle tasche scucite di una zingara a pescare il destino.

Ulivi e baobab, braccia al cielo a invocare perdono.

-Posso farti una carezza?

La tua mano.

Pelle

a pelle

scatena il temporale dei miei occhi, di lacrime che non posso piangere, di ossa spezzate nel gioco sbagliato di bastoncini di shangai.

Nodo alla gola a scendere, fantasma disteso come filari di vite.

Vita

Le banchine delle stazioni di quando si cerca il volto assente di un presente imperfetto, tempi verbali, accordi stonati.

Dis(accordi)

Chiese e Santi nascosti nelle pietre delle case, campane che suonano, nessun campanile.

Campane,

croci di Sant’Andrea, ai passaggi a livello.

Fermi, con le fiabe nelle mani, racconti bambini, perché loro ai sogni ci credono.

In equilibrio sulla mia insicurezza taglia con le forbici la linea dell’orizzonte.

Apparecchia sul tavoliere ruggine a legare i filari delle vigne.

Le file del destino in tasche di grano, paglia i miei pensieri.

Afferro la notte, infilando le unghie nel cielo buio che mi ruba l’orizzonte.

Costretto il diaframma per gridare un (no) che arrampica la notte senza cielo dove il buio ha perso l’orizzonte.

(Sulle labbra solo un lamento)

Le parole si fanno mute, ferme sui punti.

Si leggeva Shakespeare alla Cappella degli Scrovegni.

Cesella il restauro del mio cuore in pezzi.

Mosaici

Per(dere) e per(donare) certe carezze che lasciano buchi nell’anima mentre cerchi di lavarle vie.

Atto di dolore (lavami l’anima)

Mi pento e mi dolgo (atto di dolore, cucimi l’anima)

Il riflesso della luna cristallizza una ferita di spalle piegate, arrese, dita contratte, vattene via dai polsini arrotolati delle tue camicie a stropicciarsi sul pavimento.

Minuetto e sipario.

Risponde in eco il Quintettino di Boccherini, do maggiore,

“Que c'est triste Venice
quand on ne s'aime plus”

Ponti rovesciati in piccole miniature di vetro soffiato, da agitare per far nevicare.

Lingue straniere e pensieri fragili raccolti nei foulard.

Que c'est triste Venice
in una bolla di vetro.

Santa Maria, prega per noi…

Ultime file che ancora cercano baci, mentre già corrono i titoli di coda, all’uscita di un cinema che a raccontarti un libro basto io.

Non esistono ladri d’orizzonte, prestami le forbici arrugginite, chiuse dalle pietre, là in quel paese sul mare e taglia il cielo in coriandoli, fai nevicare ritagli di nuvole di drago.

Le parole che van giù come gettoni a coprire le distanze.

Bustine di zucchero a ballare un tango sulle tazzine al Caffè del Mar.

Parole crociate sulle verticali di certi muri in pietra,

io,

2 orizzontale, il contrario di un sì.

Punti e virgole, raccontami una storia di frasi lunghe, senza andare a capo,

che certi bagni di mezzanotte ti lasciano asciutto, avvolto in lidi di lino e brezza tra le ciglia, tremando un temporale, dagli occhi.

Lidi di levante mentre coltivo ulivi bonsai sul mio balcone a Shangai.

Piombo il Q-U-O-R-E

impiccata una lettera, iniziale sbagliata al collo

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