martedì 28 dicembre 2021
giovedì 14 gennaio 2021
Interviste dal lago Rosa: Cristina Cardone intervista Umberto Fiori
Umberto
fiori corre nella categoria Classic
con Roberto Camporese con il numero 207.
Cristina:
Il fatto di aver creato la Classic,
da parte degli organizzatori, non c’è un
po’ volontà di ritorno al passato, un po’ di nostalgia per la vecchia Parigi
Dakar?
Umberto: Forse
sì, c’è un po’ di nostalgia, le cose passano e mancano. Gli sport stanno
diventando veramente estremi e manca un po’ la parte che ha fatto il fondo, è
quello che ha fatto diventare famosa la Dakar, tutte le retrovie, tutta la
gente che ha corso la gara, che non è stata considerata direttamente, soprattutto
in questi anni dove anche i media
fanno vedere solo i primi, che fanno un’altra gara, sono irraggiungibili, mezzi
super potenti, persone professioniste, si è perso forse un po’ lo spirito di
quello che era la Dakar originale. Uno prendeva una macchina e poteva fare
questa avventura pazzesca. Spero che la Classic
abbia successo, per me ma anche per altri, il sogno è più vicino, il badget è
più contenuto. Avendo fatto altre Dakar vorrei trovare quel gusto
dell’avventura che si è un po’ perso.
C.:
Sulla base delle tue passate esperienze, come ci si prepara a una corsa così
dura, lunga, impegnativa. Qual è il
segreto che ti fa partire ogni volta e ti fa andare là?
U.: La
preparazione fisica e mentale: devi essere pronto ad affrontare ogni cosa. Il
gusto dell’avventura che ce l’hai o non ce l’hai. Riuscire a gestire le
situazioni che ti si presentano davanti senza spaventarti. Il gusto di buttarsi
nell’avventura, nell’ignoto e venirne fuori con le proprie forze, è un sfida
con se stessi.
C.:
Che cosa si porta a casa ? A parte “le tasche piene di sabbia” per dirla alla
Caracciolo, nella vita reale, il fatto di aver fatto la Dakar, che cosa ti
insegna?
U.: ti insegna
come ti insegna tutta la vita, se la prendi nel modo giusto è un’esperienza in
più, ti fa capire che tante volte stai insieme a una persona nei momenti più
duri, ed è proprio questo che ti lega di più a quella persona. La Dakar ti fa
dire: “ho superato cose più dure di queste, vuoi che questa volta non ce la
faccia?”
Ti porti a casa
la voglia di ritornare, perché la Dakar è come una droga. Se la fai poi la
maledici, la stramaledici ma se l’anno dopo non ci sei soffri.
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lunedì 11 gennaio 2021
Interviste dal lago Rosa: Cristina Cardone intervista Luciano Carcheri
Luciano Carcheri corre la Dakar Classic con Roberto
Musi con il numero 225.
Cristina:
Che cosa significava attraversare l’Africa, nella Parigi-Dakar? cosa si provava
ad arrivare alla “spiaggia”? Al di là dell’ordine di arrivo ma arrivarci. A
Dakar.
Luciano: La
Dakar è sempre stata un desiderio, poi fare la Parigi-Dakar è stata
un’esperienza unica, ne ho fatte 8, di cui 7 in moto. Correndo in edizioni
davvero stupende, infatti quello che pensavo arrivato qui è se trovavo una
parte del percorso che c’era in Africa con le sue diversità. Mentre si
attraversava l’Africa, per capire, il Marocco tutti sassi, la Mauritania tutta
sabbia, con le pietre sotto la sabbia, pericolosissime, la Guinea e il Mali con
piste di laterite il Sahel con piste saheliane, territori e piste che davano un
fascino completamente diverso, quindi bisognava anche cambiare il modo di
andarci in moto.
C.:
Cosa si provava ad arrivare alla “spiaggia”? Al di là dell’ordine di arrivo ma
arrivarci. A Dakar.
L.: Arrivare al
lago Rosa era il mito dei dakariani,
per me è stata una soddisfazione arrivarci per 6 volte su 8, reputo di essere
se non un miracolato, fortunato, le corse erano durissime, le tappe
inarrivabili, 1450 chilometri a volte, una follia, molte erano le insidie e non
era facile superarle tutte, però gestirle bene faceva la differenza. In ogni
caso il lago Rosa è il faro di arrivo.
C.:
Voi pensate che si potrà tornare un giorno a correre, da Parigi a Dakar?
Risponde Roberto
Musi (N.d.R.)
Roberto: se
qualcuno organizza una gara da Parigi a Dakar, degli iscritti potrà averne. Ma
se non ha una potenza economica non può concorrere con la Dakar. Che la Dakar
torni in Africa per me è impensabile. Io poi sono un integralista, nel senso
che la Dakar, deve finire a Dakar, se no non è la Dakar, e deve essere nel
Sahara. Quando l’hanno spostata in Sud America mi è sembrata una bestemmia
chiamarla “Dakar”, chiamala “gara bellissima in sud America” ma non chiamarla
Dakar. In Arabia almeno i paesaggi sono molto simili.
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sabato 9 gennaio 2021
Interviste dal lago Rosa: Cristina Cardone intervista Edoardo Mossi
Edoardo
Mossi, nell’organizzazione A.S.O. per la Dakar.
Cristina:
Lavorare con la A.S.O. e mettere in piedi questa Dakar 2021, che forse è
l’unico sport che non si è fermato in questa pandemia ma ha rispettato le date,
che valore ha come segno di “speranza” in questo momento?
Edoardo: il
segnale di speranza è molto importante in questo momento, il fatto che la
nostra organizzazione contribuisca a dare la speranza di arrivare a una pseudo normalità
è per noi molto importante. Tieni presente che non stiamo facendo una Dakar in
condizioni normali, questa problematica, le mascherine, disinfettarsi le mani
500 volte al giorno e le barriere è molto complesso e costoso da mettere in
atto, noi lo facciamo con grande rispetto per chi è a casa e non se la sta
passando tanto bene. Non confondiamo il “la Dakar da un grande segnale di
speranza” con la Dakar se ne fotte, fanno i cavoli loro in mezzo al niente
mentre c’è la pandemia. Non è così. Noi siamo coscienti della situazione
delicata, dei malati ma è giusto andare avanti è giusto che la gente che è qui
rispetti le regole a mena dito.
C.: Tu e la Dakar: prima correrla ora essere
parte della regia. Cosa ti manca, cosa ti da in più questo cambio?
E.: sarò sincero
con te, la vita del pilota non è che manchi più di tanto. Io non ero un pilota
e di conseguenza non è che avessi, a parte finire la gara, tutte queste
soddisfazioni. Oggi ho delle vere soddisfazioni, ho fatto carriera da italiano
in un’organizzazione totalmente francese, e la cosa mi riempie di gioia. Ogni
tanto ho un po’ di malinconia alla partenza, mi piacerebbe essere lì, ed essere
un po’ più spensierato di quello che posso essere oggi. E poi ogni tanto quando
trovo qualcuno che si pianta nelle dune, con la macchina, mi piacerebbe
scendere, prendergli la macchina e niente, fare io le cose che sta facendo lui.
Non si può avere tutto. Un aspetto che può essere interessante per te è quest’anno,
nonostante il nostro management avesse deciso e andasse avanti spedito, per far
sì che questa Dakar si facesse, noi bene o male ogni tanto , abbiamo dubitato
che si riuscisse a far la gara. Oggi c’è grande coesione tra tutti i membri
dell’organizzazione, perché ci siamo resi conto di far parte di un’azienda, di
un team, passami l’espressione… con due
palle così. Se prima dicevo lavoro per una delle organizzazioni più grandi al
mondo oggi ti potrei dire che lavoro per un’organizzazione sportiva, che in
piena pandemia, organizza un evento di duemila persone, per 15 giorni, in un
altro continente, che fa riaprire tutti i voli e permette a 2500 persone di
muoversi da tutto il mondo, creando una bolla sanitaria Covid free, una roba da
folli, che se la racconti a uno, che non ha seguito, ti prende per pazzo. Quindi
la vita del pilota non mi manca.
C.:
L’arrivo a Jeddah sul Mar Rosso vuole ricordare un po’ l’arrivo alla spiaggia a
Dakar? C’è un po’ di nostalgia? Quest’anno con l’introduzione della Classic, o di quella che era la Malle moto, c’è un po’ di voglia di
tornare allo spirito di quella che era la prima Parigi-Dakar?
E.: Un’eredità
difficile da portare, i paragoni e il romanticismo di passare su una spiaggia,
che può ricordare il lago Rosa, sono forse più aspetti da giornalismo, noi non
lo facciamo pensando a quello. David è una persona molto pura e decide molto a
pancia, anche nei percorsi, facciamo dei progetti, lui va e modifica sulla
sensazione che ha sul terreno. Quest’anno a lui piaceva l’arrivo sulla
spiaggia. Siam partiti dal mare, ritorniamo al mare. Lui pensa molto
all’aspetto sportivo, al divertimento del pilota. La cosa interessante è che lo
spirito, gareggiando in un paese come questo, sta tornando molto indietro, cerchi
una componente di avventura e, per assurdo, anche il Covid sta portando un
aspetto di avventura, non si può più andare negli hotel, bisogna stare nella
bolla sanitaria del bivacco…
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Cristina
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giovedì 7 gennaio 2021
Interviste dal lago Rosa: Cristina Cardone intervista Cesare Zacchetti
Cesare
Zacchetti corre la Malle Moto con il
numero 78.
Cristina: TabUi la rivoluzione della
realtà aumentata. Raccontaci i segreti, cosa dobbiamo aspettarci (io l’ho
scaricata), cosa vedremo della Dakar?
Zacchetti:
Sarà un innovation test, legato alla scoperta del territorio attraverso la
tecnologia.
C.: Correre oggi quella che era la Malle moto oggi per dimostrare qualcosa
a se stessi? Ha un valore diverso arrivare in fondo da solo?
Z.: Assolutamente
sì! La Malle moto è la dimensione
avventurosa e un po’ romantica di questa gara! Porta ancora con sé il fascino
delle prime edizioni a cui mi ero appassionato quando ero un ragazzo.
C.: Che cosa insegna una gara come la
Dakar nella vita di tutti i giorni?
Z.:
È un’esperienza straordinaria per i luoghi e le persone che puoi incontrare, e
questo è un aspetto, dal punto di vista sportivo come una maratona ti mette
alla prova fisicamente e mentalmente, una bella scuola di vita!
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Cristina
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martedì 5 gennaio 2021
Interviste dal lago Rosa: Cristina Cardone intervista Francesco Catanese
Francesco
Catanese corre quella che era la Malle
moto con il numero 90.
Cristina: La Dakar oggi come ieri
(quando si correva in Africa) ha un richiamo irresistibile. Perché si va alla
Dakar? Cosa si cerca?
Francesco: La
Dakar è il sogno di chiunque pratichi fuoristrada con la moto. È l'elevazione a
potenza del concetto di "mettersi alla prova" o "sfidare
l'ignoto". Per pochi questo sogno diventa un obiettivo al punto che la
passione si trasforma in una vera ossessione. Si cerca in ogni modo di trovare
il budget per poter partecipare. Sognavo di fare questa corsa fin da ragazzino,
ma ho potuto farlo solo da uomo maturo quando mi sono realizzato
professionalmente. Adesso però la corsa è qualcosa di più grande di me, non ho
più quel fisico che servirebbe per farla bene. Ma non importa, l'importante è
esserci, l'importante è realizzare il sogno e provarci fino all'ultimo briciolo
di energia.
C.: Correre quella che era la Malle moto cosa rappresenta oggi? Senza
assistenza arrivare in fondo è un trionfo più grande?
F.: La Malle è una follia nella follia, ci ho
provato nel 2016 ma dopo 8 tappe si è rotta la moto... sicuramente è la
categoria più vicina al concetto originario della Parigi Dakar così come
l'aveva ideata Thierry Sabine. Per molti però è anche l'unico modo per correrla
visto che si risparmia sul meccanico. È una categoria che promette emozioni
fortissime, fin troppo, corri sempre con l'angoscia di avere un problema
meccanico o elettrico e non saperlo riparare oppure dover passare la notte a
risolverlo. È fondamentale essere calmi e non fare mai errori. Vietato cadere.
Ma in 8000 km è sicuro che prima o poi qualcosa capita. Chi riesce a finirla in
questa categoria dovrebbe avere 2 medaglie.
C.: Trovare la strada, saper leggere le
note del Road-book poi, quando torni, ti insegna a trovare le “strade” anche
nella vita? Come ti cambia la Dakar in questo senso?
F.: I rally in
moto in generale mi hanno insegnato tantissimo. Non ci sono scorciatoie per raggiungere
gli obiettivi. Non puoi tagliare, devi per forza passare di lì se no sei fuori.
Se non riesci a salire su una pietraia o su una duna torni indietro e ci
riprovi. Se cadi, rompi e ti ritiri la prossima volta ti prepari meglio e ci
riprovi. La resistenza (durante la tappa), l'ordine mentale (al bivacco), il
self-control durante i numerosi imprevisti (incidenti), sono tutte scuole di
vita che quando sei a casa ti permettono di affrontare meglio la vita civile e
sociale. Non sarei chi sono se non avessi fatto tutti i rally che ho fatto, al
di là della classifica che mi ha sempre interessato fino ad un certo punto.
L'importante per me è sempre stato vivere la gara e cercare di arrivare in
fondo.
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Etichette: Dakar 2021
lunedì 4 gennaio 2021
Interviste dal lago Rosa: Cristina Cardone intervista Tiziano Internò
Tiziano
Internò corre quella che era la Malle
moto con il numero 59. Per raccogliere i soldi necessari a coprire l’acquisto
di un pacchetto di diritti televisivi, per raccontare con Rally Pov la corsa, in
italiano, lancia una raccolta fondi: si può partecipare con un’offerta senza
ricompensa e si avrà l’onore di avere il proprio nome scritto sulla sua cassa Malle moto, unica fonte di
“sostentamento” per 13 tappe. Oppure acquistando una pagina di Road-book o
altri gadget, o essere sponsor da parte di aziende.
Cristina: La
Dakar è cambiata, negli anni non c’è più stata Parigi e poi nemmeno Dakar.
Andare oggi alla Dakar, scegliendo quella che era la Malle moto, è un modo di tornare alle origini? Di correre senza
aiuti, come diceva Sabine “questa corsa insegna una cosa: che bisogna
sbrogliarsela da soli”?
Tiziano: Sono conscio che la
Dakar di oggi sia molto cambiata da quella originale si Sabine. Non c’è più
l’Africa, è vero, ma non dobbiamo dimenticarci che anche i mezzi e soprattutto gli
strumenti sono cambiati e si sono necessariamente evoluti nel tempo. Ritengo
inutile e limitante continuare a ricercare un passato che semplicemente non
tornerà più. Gli uomini delle Dakar degli anni 80 e 90 erano veri e propri
avventurieri che rischiavano la vita inseguendo le note scritte su un pezzo di
carta. Correre oggi la Dakar è, al contrario, un’esperienza maggiormente
rivolta al gesto agonistico e sportivo estremo, rispetto a quello più di
sopravvivenza e avventura di un tempo. Nonostante questo ho proprio deciso di
correre nella Male moto, senza alcun
genere di assistenza, perché lo ritengo il modo più umile e vero di approcciare
ad un evento così grande. Non mi ritengo un pilota e, proprio per questo,
desidero assaporare ogni orizzonte, ogni km ed ogni istante di questa
avventura. Poter contare solo sulle mie forze per 15 giorni nel deserto credo
sarà qualcosa che riuscirà a plasmare e fortificare ancor di più il mio Sé.
C.:
In sella alla moto, davanti il deserto: si scappa da qualcosa o si cerca
qualcosa alla Dakar?
T.: Nella vita non si può
scappare da nulla. Puoi cambiare luogo, cambiare persone... puoi persino
provare a correre nel deserto la gara più estrema del mondo, ma presto
l’Universo ti verrà comunque a cercare. La Dakar, almeno per me, è l’ennesimo
viaggio che desidero affrontare alla riscoperta del mio io. È un modo diverso
per esplorare me stesso ed essere messo di fronte alle mie paure, e ai miei
talenti.
C.:
La Dakar, hai detto recentemente, che è un sogno che si realizza. Ma vogliamo
dire a quelli che stanno a casa quanto lavoro, fatica, tempo, ci si dedica per
poter dire: io sono stato alla Dakar . E sei consapevole di quale magia sia
essere lì?
T.: Il progetto Rally POV nasce
proprio da questo desiderio: riuscire a raccontare a chi sta a casa la magia
del cammino verso la Dakar e della gara stessa. Rally POV è la storia di un
ragazzo che, partendo da zero, decide di realizzare il suo sogno sportivo più
grande di sempre imparando a navigare e organizzando ogni aspetto di questa
gara. Il mio intento primario, anche durante la gara, sarà infatti quello di
raccontarla, giorno per giorno, live ed in italiano, mediante una serie di
video che andranno a formare un vero e proprio diario di viaggio. Chi sarà a
casa avrà così la possibilità di vivere tutti i retroscena e le emozioni della
gara più affascinante del mondo.
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Etichette: Dakar 2021
domenica 3 gennaio 2021
Interviste dal lago Rosa: Cristina Cardone intervista Roberto Musi
Roberto
Musi corre la Classic con Luciano
Carcheri con il numero 225.
Cristina:
Quando nasce in te l’idea di fare la Dakar? So che quest’anno farai la Classic, novità introdotta e raccontata
da Castera nella conferenza di primavera. Che cosa scatta perché si va, o
perché sei andato? Che cosa cerchi, che cosa ti aspetti, cosa pensi di portare
a casa?
Roberto: La mia
passione per la Dakar è nata quando ancora a 16 anni andavo in moto e guardavo
la corsa in televisione e sbavavo davanti allo schermo chiaramente, tutte le
sere che si vedevano i servizi su Italia 1. Poi nel 92 ho avuto modo di fare
assistenza al Rally di Tunisia, che era già rally di coppa del Mondo, io ero giù a fare assistenza a privati che correvano
e sono entrato in questo mondo. Ho conosciuto piloti e giornalisti che mi hanno
dato spazio sulle loro riviste e ho cominciato a organizzare viaggi nel deserto,
per gente in moto che amava il deserto come me. Ho comprato un camion e ho
fatto assistenza anche ad altre gare. Questa cosa qui di portare gente nel
deserto ha fatto sì che per me la Dakar diventasse un problema dal punto di
vista lavorativo, perché io lavoravo principalmente a Capodanno, quando la
Dakar partiva e per me sarebbe significato, oltre all’esborso economico
notevole che è la Dakar, anche un mancato introito. Quindi ha fatto sì che per
me fosse quasi impossibile avvicinarmi alla Dakar come concorrente. A parte la
partecipazione alla Dakar ci sono anche mie partecipazioni a rally minori,
anche se di Campionato del mondo, come il Marocco, la Tunisia, il Turkmenistan,
il Rally dei Faraoni come pilota del camion scopa. Con la Dakar ho avuto un
brutto rapporto, nel senso che nel 2008 dovevo correre come pilota su un camion
e il 2008 è stato l’anno che la Dakar è stata cancellata, in maniera, a mio
avviso, disonesta. A noi dissero che veniva cancellata per un discorso di
sicurezza. Ma la Dakar è stata corsa in anni ben più caldi del 2008, e qualche
mese prima avevo saputo, da una giornalista, che sarebbe stata l’ultima Dakar
in Africa, perché c’era già la certezza
che sarebbe andata in Sud America. La mia impressione è che i 4 morti
nel deserto della Mauritania, 14 giorni prima della cancellazione della Dakar,
siano stati il casus belli perfetto per
cancellare la corsa e giustificarsi verso i concorrenti, la stampa, lasciare
l’Africa e andare in Sud America e ora in Arabia. Per mero discorso economico.
Io avrei dovuto partire con un camion, a gara cancellata ho pensato che quello
che era stato il mio sogno per 30 anni non lo era più. Nel 2015 sono andato in
Sud America per un team lituano per i quali guidavo un camion dell’assistenza e
ora sono qui con Luciano Carcheri per fare la Classic.
La classic è una
sorella minore rispetto alla gara normale. Qui vince quello che riesce a
percorrere un certo percorso a una velocità media prestabilita, in questo modo
possono tenere una velocità media più bassa, abbassando i rischi, per far
correre chi aveva auto, con un livello di preparazione come sicurezza, a norma
negli anni 80 ma non per gli standard di oggi.
La Dakar è
quella che mi ha avvicinato all’Africa, infatti ho fatto tanta, tantissima
Africa al posto di fare la Dakar.
C.:
Hai detto che hai guidato il camion scopa, quindi mi immagino quando andavi a
raccogliere i concorrenti, la loro delusione?
R.: Del camion
scopa ricordo un aneddoto, ci fu un equipaggio, non ricordo di che nazionalità,
li raccattammo nel deserto con la macchina rotta, e li mettemmo al traino, però
questi qua veramente non erano capaci di guidare e allora quando facevamo le
dune loro invece di tenere la cinghia in tiro nelle discese si avvicinavano al
camion, quando poi arrivavano a una salita prendevano un “tirone” da staccargli
il collo.
C.:
Il deserto, i chilometri, la fatica. Che cos’è la paura?
R.: Bella
domanda, bella domanda. Allora la paura può venire da due cose: o stai facendo
qualcosa di sbagliato e allora pensi “m…da,
m…da, m…da” e aspetti che tutto finisca e speri che finisca nel modo
migliore. Invece un’altra paura può derivare da quando non sei sicuro di essere
sul percorso giusto, non sai se stai facendo la cosa giusta, per esempio io
tanti anni fa, mi son trovato in un viaggio in Africa, abbiamo voluto
improvvisare un po’ troppo, abbiamo perso la pista e l’abbiamo ritrovata dopo
un po’ di tempo con un po’ di fortuna. E, parlando con amici, che si sono
trovati alla Dakar negli anni ruggenti, mi hanno detto che viaggiavi senza
strumentazione, se sbagliavi percorso poteva finire male, rimanere a piedi e
nessuno ti avrebbe trovato. Cosa che oggi è un’eventualità impossibile. Ci è
vietato lasciare il percorso e in tempo reale l’organizzazione ci trova. È
impossibile essere abbandonato nel deserto perché sanno dove sei. Poi è chiaro
che l’errore e la sfortuna che ci possono mettere lo zampino. Per quel che mi
ricordo l’ultima persona morta Dakar perché perso fu un motociclista, in Sud
America, sparito i primi giorni e trovato solo alla fine. Ma in quel caso
qualcosa non aveva funzionato nel sistema di sicurezza di ricerca.
La paura
consapevole è quella che ti salva la vita, però se deve essere troppa tanto
vale che stai a casa, se devi vivere con l’ansia non venire a fare queste cose.
Poi come c’è scritto dentro tutti i circuiti anglosassoni: Motosport is dangerous. Andando forte puoi farti male, fa parte del
gioco.
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Etichette: Dakar 2021
sabato 2 gennaio 2021
Interviste dal lago Rosa: Cristina Cardone intervista Giorgio Proglio
Giorgio
Proglio, chairman & CEO presso tabUi. Sponsor alla Dakar.
Dopo
i saluti di rito in piemontese (entrambi cuneesi) intervisto Giorgio Proglio
ideatore della app tabUi (letteralmente “cane da tartufi”, in piemontese)
C.:
Fammi capire una cosa, io ho scaricato la app di tabUi, quindi che succede dal
2 Gennaio? Mentre faccio colazione, in pigiama, con i torcetti di Lanzo
affogati nel cappuccino, apro tabUi e sono alla Dakar in sella con Zacchetti?
Ride (N.d.R.)
G.: Il progetto
è nato con Cesare lo scorso anno. Premetto che non capisco di moto. Nel 2019
dico a Cesare Zacchetti, caro amico, che avrei voluto mettere il logo di tabUi
sulla sua moto.
Mi ha risposto:
“ma cosa c’entra una app nata per valorizzare il territorio delle Langhe con la
Dakar?” “Portiamola alla Dakar”, ho detto. Intanto tabUi, che nasce ed è la
rivoluzione della realtà aumentata, quest’anno tocca i centomila utenti. Laggiù
sarà un innovation test, Cesare nei
trasferimenti, ai bivacchi, userà la app raccogliendo dati per la realtà
aumentata. Vedi per quanto riguarda le mappe, le cartografie, l’Arabia Saudita
non ha ancora preso accordi con tutti i paesi, o le società tipo Google. Se un
domani si dovesse mappare quella zona, facendo raccogliere i dati, verificando
come funziona nel deserto in situazioni di umidità e calore… avrò dei risultati,
avendo la possibilità di far fare a Cesare questo test della applicazione.
Inoltre noi comunichiamo agli utenti che Cesare è là e potrà rispondere a delle
domande, delle curiosità. Sceglieremo tra le domande quelle più curiose e lui
farà un video dove risponde. Compatibilmente con le difficoltà, perché corre
senza assistenza e quindi dovrà anche occuparsi della moto a fine tappa.
C.:
In un momento come questo perché hai creduto nella Dakar?
G.: Credo a
tutto, in questo momento. Sono un ottimista. Mi piacciono le cose “fighe” e un po’ strane, se mi avessero
chiesto di sponsorizzare il calcio non sarei stato interessato, la Dakar è
strana. Ho bisogno di innamorami delle cose. Cesare mi ha fatto appassionare.
Dici Dakar e hai detto tutto. È una malattia.
C.:
Ora ti dirò una cosa: se ti ammali di Dakar non guarisci più.
G.: Vero.
C.:
Qual è il tuo primo ricordo della Dakar?
G.: Ero piccolo.
Ricordo il simbolo del Tuareg, quelle “congiunzioni astrali” particolari. Mi
piacevano i loghi, li ritagliavo. La guardavo, la vivevo. C’erano Orioli, Peterhansel,
le macchine che prendevano fuoco. Poi per anni non mi sono più interessato, ora
a riguardarla, a riviverla con Cesare, capisco che è sempre quella. Anche
quando succede che muore qualcuno, come lo scorso anno, Gonçalves, quando
Cesare è tornato gli ho chiesto a questo proposito: “ma non hai paura?” lui mi
ha detto: “Giorgio lo sappiamo, abbiamo scelto questa gara. E la gara non si
ferma nemmeno se accadono queste cose.”
C.:
Bene, quindi tabUi insegna che ci sono ancora terre da “conquistare”?
G.:
Assolutamente sì.
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