sabato 9 gennaio 2021

Interviste dal lago Rosa: Cristina Cardone intervista Edoardo Mossi




Edoardo Mossi, nell’organizzazione A.S.O. per la Dakar.

 

Cristina: Lavorare con la A.S.O. e mettere in piedi questa Dakar 2021, che forse è l’unico sport che non si è fermato in questa pandemia ma ha rispettato le date, che valore ha come segno di “speranza” in questo momento?

 

Edoardo: il segnale di speranza è molto importante in questo momento, il fatto che la nostra organizzazione contribuisca a dare la speranza di arrivare a una pseudo normalità è per noi molto importante. Tieni presente che non stiamo facendo una Dakar in condizioni normali, questa problematica, le mascherine, disinfettarsi le mani 500 volte al giorno e le barriere è molto complesso e costoso da mettere in atto, noi lo facciamo con grande rispetto per chi è a casa e non se la sta passando tanto bene. Non confondiamo il “la Dakar da un grande segnale di speranza” con la Dakar se ne fotte, fanno i cavoli loro in mezzo al niente mentre c’è la pandemia. Non è così. Noi siamo coscienti della situazione delicata, dei malati ma è giusto andare avanti è giusto che la gente che è qui rispetti le regole a mena dito.

 

 C.: Tu e la Dakar: prima correrla ora essere parte della regia. Cosa ti manca, cosa ti da in più questo cambio?

 

E.: sarò sincero con te, la vita del pilota non è che manchi più di tanto. Io non ero un pilota e di conseguenza non è che avessi, a parte finire la gara, tutte queste soddisfazioni. Oggi ho delle vere soddisfazioni, ho fatto carriera da italiano in un’organizzazione totalmente francese, e la cosa mi riempie di gioia. Ogni tanto ho un po’ di malinconia alla partenza, mi piacerebbe essere lì, ed essere un po’ più spensierato di quello che posso essere oggi. E poi ogni tanto quando trovo qualcuno che si pianta nelle dune, con la macchina, mi piacerebbe scendere, prendergli la macchina e niente, fare io le cose che sta facendo lui. Non si può avere tutto. Un aspetto che può essere interessante per te è quest’anno, nonostante il nostro management avesse deciso e andasse avanti spedito, per far sì che questa Dakar si facesse, noi bene o male ogni tanto , abbiamo dubitato che si riuscisse a far la gara. Oggi c’è grande coesione tra tutti i membri dell’organizzazione, perché ci siamo resi conto di far parte di un’azienda, di un team, passami l’espressione… con  due palle così. Se prima dicevo lavoro per una delle organizzazioni più grandi al mondo oggi ti potrei dire che lavoro per un’organizzazione sportiva, che in piena pandemia, organizza un evento di duemila persone, per 15 giorni, in un altro continente, che fa riaprire tutti i voli e permette a 2500 persone di muoversi da tutto il mondo, creando una bolla sanitaria Covid free, una roba da folli, che se la racconti a uno, che non ha seguito, ti prende per pazzo. Quindi la vita del pilota non mi manca.

 

C.: L’arrivo a Jeddah sul Mar Rosso vuole ricordare un po’ l’arrivo alla spiaggia a Dakar? C’è un po’ di nostalgia? Quest’anno con l’introduzione della Classic, o di quella che era la Malle moto, c’è un po’ di voglia di tornare allo spirito di quella che era la prima Parigi-Dakar?

 

E.: Un’eredità difficile da portare, i paragoni e il romanticismo di passare su una spiaggia, che può ricordare il lago Rosa, sono forse più aspetti da giornalismo, noi non lo facciamo pensando a quello. David è una persona molto pura e decide molto a pancia, anche nei percorsi, facciamo dei progetti, lui va e modifica sulla sensazione che ha sul terreno. Quest’anno a lui piaceva l’arrivo sulla spiaggia. Siam partiti dal mare, ritorniamo al mare. Lui pensa molto all’aspetto sportivo, al divertimento del pilota. La cosa interessante è che lo spirito, gareggiando in un paese come questo, sta tornando molto indietro, cerchi una componente di avventura e, per assurdo, anche il Covid sta portando un aspetto di avventura, non si può più andare negli hotel, bisogna stare nella bolla sanitaria del bivacco…

 


 

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