domenica 3 gennaio 2021

Interviste dal lago Rosa: Cristina Cardone intervista Roberto Musi




Roberto Musi corre la Classic con Luciano Carcheri con il numero 225.

 

 

Cristina: Quando nasce in te l’idea di fare la Dakar? So che quest’anno farai la Classic, novità introdotta e raccontata da Castera nella conferenza di primavera. Che cosa scatta perché si va, o perché sei andato? Che cosa cerchi, che cosa ti aspetti, cosa pensi di portare a casa?

 

Roberto: La mia passione per la Dakar è nata quando ancora a 16 anni andavo in moto e guardavo la corsa in televisione e sbavavo davanti allo schermo chiaramente, tutte le sere che si vedevano i servizi su Italia 1. Poi nel 92 ho avuto modo di fare assistenza al Rally di Tunisia, che era già rally di coppa del Mondo,  io ero giù a fare assistenza a privati che correvano e sono entrato in questo mondo. Ho conosciuto piloti e giornalisti che mi hanno dato spazio sulle loro riviste e ho cominciato a organizzare viaggi nel deserto, per gente in moto che amava il deserto come me. Ho comprato un camion e ho fatto assistenza anche ad altre gare. Questa cosa qui di portare gente nel deserto ha fatto sì che per me la Dakar diventasse un problema dal punto di vista lavorativo, perché io lavoravo principalmente a Capodanno, quando la Dakar partiva e per me sarebbe significato, oltre all’esborso economico notevole che è la Dakar, anche un mancato introito. Quindi ha fatto sì che per me fosse quasi impossibile avvicinarmi alla Dakar come concorrente. A parte la partecipazione alla Dakar ci sono anche mie partecipazioni a rally minori, anche se di Campionato del mondo, come il Marocco, la Tunisia, il Turkmenistan, il Rally dei Faraoni come pilota del camion scopa. Con la Dakar ho avuto un brutto rapporto, nel senso che nel 2008 dovevo correre come pilota su un camion e il 2008 è stato l’anno che la Dakar è stata cancellata, in maniera, a mio avviso, disonesta. A noi dissero che veniva cancellata per un discorso di sicurezza. Ma la Dakar è stata corsa in anni ben più caldi del 2008, e qualche mese prima avevo saputo, da una giornalista, che sarebbe stata l’ultima Dakar in Africa, perché c’era già la certezza  che sarebbe andata in Sud America. La mia impressione è che i 4 morti nel deserto della Mauritania, 14 giorni prima della cancellazione della Dakar, siano stati il casus belli perfetto per cancellare la corsa e giustificarsi verso i concorrenti, la stampa, lasciare l’Africa e andare in Sud America e ora in Arabia. Per mero discorso economico. Io avrei dovuto partire con un camion, a gara cancellata ho pensato che quello che era stato il mio sogno per 30 anni non lo era più. Nel 2015 sono andato in Sud America per un team lituano per i quali guidavo un camion dell’assistenza e ora sono qui con Luciano Carcheri per fare la Classic.

 

La classic è una sorella minore rispetto alla gara normale. Qui vince quello che riesce a percorrere un certo percorso a una velocità media prestabilita, in questo modo possono tenere una velocità media più bassa, abbassando i rischi, per far correre chi aveva auto, con un livello di preparazione come sicurezza, a norma negli anni 80 ma non per gli standard di oggi.

 

La Dakar è quella che mi ha avvicinato all’Africa, infatti ho fatto tanta, tantissima Africa al posto di fare la Dakar.

 

C.: Hai detto che hai guidato il camion scopa, quindi mi immagino quando andavi a raccogliere i concorrenti, la loro delusione?

 

R.: Del camion scopa ricordo un aneddoto, ci fu un equipaggio, non ricordo di che nazionalità, li raccattammo nel deserto con la macchina rotta, e li mettemmo al traino, però questi qua veramente non erano capaci di guidare e allora quando facevamo le dune loro invece di tenere la cinghia in tiro nelle discese si avvicinavano al camion, quando poi arrivavano a una salita prendevano un “tirone” da staccargli il collo.

 

C.: Il deserto, i chilometri, la fatica. Che cos’è la paura?

 

R.: Bella domanda, bella domanda. Allora la paura può venire da due cose: o stai facendo qualcosa di sbagliato e allora pensi “m…da, m…da, m…da” e aspetti che tutto finisca e speri che finisca nel modo migliore. Invece un’altra paura può derivare da quando non sei sicuro di essere sul percorso giusto, non sai se stai facendo la cosa giusta, per esempio io tanti anni fa, mi son trovato in un viaggio in Africa, abbiamo voluto improvvisare un po’ troppo, abbiamo perso la pista e l’abbiamo ritrovata dopo un po’ di tempo con un po’ di fortuna. E, parlando con amici, che si sono trovati alla Dakar negli anni ruggenti, mi hanno detto che viaggiavi senza strumentazione, se sbagliavi percorso poteva finire male, rimanere a piedi e nessuno ti avrebbe trovato. Cosa che oggi è un’eventualità impossibile. Ci è vietato lasciare il percorso e in tempo reale l’organizzazione ci trova. È impossibile essere abbandonato nel deserto perché sanno dove sei. Poi è chiaro che l’errore e la sfortuna che ci possono mettere lo zampino. Per quel che mi ricordo l’ultima persona morta Dakar perché perso fu un motociclista, in Sud America, sparito i primi giorni e trovato solo alla fine. Ma in quel caso qualcosa non aveva funzionato nel sistema di sicurezza di ricerca.

 

La paura consapevole è quella che ti salva la vita, però se deve essere troppa tanto vale che stai a casa, se devi vivere con l’ansia non venire a fare queste cose. Poi come c’è scritto dentro tutti i circuiti anglosassoni: Motosport is dangerous. Andando forte puoi farti male, fa parte del gioco.

 

 



 

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