giovedì 6 marzo 2008

Tripoli Express. And Rose








“Siamo condannati ad essere seppelliti nella sabbia” Rommel

La lettera era arrivata un martedì, poco dopo l’ora del pranzo.
La busta era verde chiaro.
Come il fieno a seccare nelle aie.
Entrò in molte case. Le donne si asciugavano il pianto con il grembiule impastato di farina. I ragazzi uscivano. Per la guerra.
(1940-1943 Libia)
Luigi stava un po’ stretto nella sua divisa mentre il treno arrivava a Genova. Doveva presentarsi al porto, insieme a molti altri giovani, chi non era lì per le 12 del giorno stabilito era considerato un disertore.
La nave partiva per Tripoli, erano gli anni della campagna d’Africa.
Il maghreb li accolse con i suoi odori forti di spezie, bianco abbagliante il muro delle case, in contrasto con un cielo cobalto.
Tremava come un miraggio il deserto di dune.
Cosa c’era poi da conquistare? La fame era compagna di mosche e piaghe.
Non si muoveva nulla sotto il sole di mezzogiorno. Avevano visto spesso gli arabi prostrarsi in quell’ora, inginocchiati in preghiera.
Abbi pietà di noi…
Quello che successe in quella guerra, la linea stabilita da Rommel, le alleanze fatte a tavolino, in Europa, i tradimenti e i traditori, tutto è scritto nei libri di storia.
Ma laggiù era il deserto e persero Tripoli.
Un luccichio nel deserto immobile e poi fu una pioggia di proiettili. Arrivavano da tutte le parti. I ragazzi cadevano. Si disegnava una rosa sul cuore. Il sangue subito era assorbito dalla sabbia. Rose del deserto.
INGLESI! Erano inglesi ed erano tantissimi. Arrivati da dove… sbucati dalle dune, con un piano perfetto: distruggere il porto di Tripoli. Gennaio del ’43.
Il rumore sordo di fucili e mitragliette, poi le bocche dei cannoni alzarono onde altissime.
Lacrime di sale.
La guerra. Con quel che ne consegue quando perdi, si contano i danni, i morti.
Caddero prigionieri.
Chiusi in campi angusti, dove si moriva di tifo, di fame. Costretti a camminare per giorni, diretti a Tunisi, i piedi piagati. In molti spediti a Casablanca con un treno.
“Non ho il biglietto”
Luigi non domandava “dove?” arrotolava la cartina delle sue sigarette, mangiava pane secco.
Aveva vent’anni e conosceva il prezzo della libertà.
L-I-B-E-R-T-à
Un giorno alcuni prigionieri si erano allontanati. Quando li ripresero si dice che li portarono nel deserto, costringendoli a scavare. Legarono loro le mani e li calarono. Lasciando fuori solo la testa. Poi ricoprirono con la sabbia. Rovesciarono a terra un secchio di scorpioni e ragni.
Li lasciarono là, mentre il sole saliva il picco del mezzogiorno.
A imprecare contro il cielo, muto.
“Se c’è un dio, dovrà chiedermi perdono”
Lo raccontava un cammelliere, che sarebbe finito a vendere tappeti sulla Promenade des Anglais.
Prisonnier de guerre
Ad Aprile Luigi lesse su un giornale francese che Vittorio Emanuele III si proclamava Imperatore d’Etiopia. Re di niente.
Anni fame e lavoro, di deserto e paura.
Pochi franchi nelle tasche.
Poi una nave, il mare, e il profilo di una città sulla quale vegliava la Lanterna.
Luigi la sera sedeva all’albergo Amba Alagi. Si beveva Pastis. Verde come quella busta, come il fieno a seccare nelle aie. La guerra era il racconto orale nella conta dei posti vuoti. E una sigaretta tra le dita, a fare cenere.
Quel che resta di noi.

(Luigi Revelli, classe 1921. Ha combattuto a Tripoli ed è stato prigioniero degli inglesi)

1 commento:

Anonimo ha detto...
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