martedì 18 marzo 2008

Petit coeur

-Picasso-









Il biglietto della spesa nella tasca del cappotto. Trovato così per caso mentre Viola affondava le mani, a cercare un po’ di tepore.

Pioveva.

Una pioggia a dirotto, come un pianto, in singhiozzo anche il traffico, tra i colori del semaforo, alternati.

John parlava al telefono, si erano fermati all’imbocco della metropolitana. Era nervoso, il segnale andava e veniva, capiva un quarto di quella conversazione e poi pure il vento nel microfono amplificato e frusciante come su un campo di lavanda. Buttò la sigaretta e prese un foglietto, piegato, gli cadde la penna, sbuffò.

Lei era lì a pochi passi, aspettava, l’ombrello chiuso che aveva raccolto una pozza d’acqua ai suoi piedi, le guance arrossate dal freddo, e una mano nella tasca, aveva trovato qualcosa, che stropicciò e lasciò cadere in un cestino.

Dalle scale mobili cominciarono a fluire le persone, era arrivato un treno.

L’uomo aveva un cappello, sollevò lo sguardo incrociando quello di Viola.

Lei dischiuse le labbra in un sorriso, come tulipani e rugiada, come la voglia fresca di due amanti muti. Ancor prima di proferire parola, prima che le mani si toccassero, prima di sentire la voce, le petit coeur aveva detto tutto. Del segreto, della passione, del tempo che è diacronico, nell’eterno perdersi. Le cose si perdono, per essere ritrovate.

La fede.

Durò la frazione di attimo, che agli occhi di tutti sfuggì, che lì c’era il deserto, che lì si posavano le labbra sul Graal, rivelando al mondo che l’amore è.

E non contavano le migliaia di chilometri fatti, le oasi, i voli aerei, le parole dette.

E quelle non dette. E quelle dette per ferire.

Appartenersi. Lo stesso tempo di una sinfonia che lascia correre due note, lo stesso altare.

Poi la vita riprese, la gente li scansava, qualcuno lo urtò. Terminò la telefonata.

Lei e lui tesero le mani e si baciarono sulle guance. Che tanto casto fu il gesto, da travolgerli di passione.

“Che fai a Parigi?” chiese lei.

“Il turista”

Poi anche l’uomo che telefonava si avvicinò lei li presentò.

“Devo tornare in ufficio” si scusò con lei.

“Allora ci vediamo lunedì”

Si ritrovarono soli, l’uomo e la donna.

Lui la prese sottobraccio, lei aprì l’ombrello.

“Che si fa?”

“Andiamo a pranzo”

Il bistrò affacciava su una via laterale, le tende bianche e blu alle finestre, il fumo delle sigarette, e quell’atmosfera che si respira solo lì.

“Non mettere tutto quel pepe sulla carne” disse lui scuotendo il capo.

Lei alzò lo sguardo dal piatto, la frangia ricadeva sugli occhi, restò con la forchetta a mezz’aria. Non rispose.

Lui la osservava divertito, gli piaceva giocare con lei. Gli sarebbe piaciuto adesso, dopo, subito.

Di guerre sui campi di Marte ne aveva vinte tante e il ricordo di un cavallino zoppo di Murano lo strappò a un tempo antico.

“Ho deciso di correre”

“Hai un buon team?”

“Ho un buon meccanico e una brava interprete”

Così tutto era compiuto. Accettando che fosse più grande di loro.

Che alla fine, l’amore è.

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